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Occupazione: 2006, Anno Europeo della mobilità dei Lavoratori
10/01/2006 NP-2761

Cambiare lavoro o spostarsi, all’interno del proprio Paese o all’estero, per andare a lavorare offre l’opportunità di acquisire nuove competenze e esperienze.
Una riconversione fondamentale, anche alla luce dell’attuale economia globalizzata e in corso di ristrutturazione. Sulla base di queste considerazioni, la Commissione europea ha proclamato il 2006 ’Anno europeo della mobilità dei lavoratori’. Un’iniziativa che mira a sensibilizzare i lavoratori sui vantaggi di un lavoro all’estero o del cambiamento di lavoro e a migliorare la comprensione della mobilità. Infatti, dalle statistiche più aggiornate, risulta che ben pochi europei lavorano all’estero: negli ultimi 30 anni, la percentuale degli europei che risiedono in un paese dell’Unione diverso dal proprio paese d’origine è rimasta costante, attestandosi intorno all’1,5%.
E il connubio ’lavoro- spostamento’ piace ancora meno agli italiani: secondo Eurostat, infatti, solo l’1,2% dei lavoratori nazionali è occupato all’estero e appena il 5,8%, nel 2003, dichiara di aver cambiato impiego nell’anno precedente, a fronte di una media europea dell’8,2%.
La quota degli italiani che hanno cambiato lavoro è diminuita negli ultimi tre anni (era del 6,1% nel 2000), anche se è superiore a quella che si registrava nel 1997 (4,8%). Agli italiani, poi, spetta il record per la permanenza nello stesso posto oltre i dieci anni, che interessa ben il 45,8% dei lavoratori contro il 38,3% della media Ue. Ma la tendenza a restare nello stesso posto sembra comune.
Il tasso di mobilità occupazionale, infatti, negli Stati membri della Ue, raramente va oltre il 10%, che sale, anche se di poco, all’8,6% se si considera solo l’Europa dei 15. Per tutti, inoltre, il 2000 ha segnato un vero e proprio picco nella mobilità (9,3% la media della Ue a 25).
Per Vladimír Špidla, commissario europeo per l’Occupazione, gli Affari sociali e le Pari opportunità, alla base della scarsa mobilità professionale dei lavoratori nell’Unione europea vi sono ancora “ostacoli giuridici, amministrativi e linguistici, cui si aggiunge la scarsa conoscenza delle informazioni e degli aiuti disponibili”. “Inoltre -ha dichiarato Špidla- numerosi lavoratori rimangono poco persuasi dei vantaggi offerti da un lavoro all’estero o in un altro settore. Questi sono gli aspetti a cui dobbiamo interessarci”.
Meno inclini degli italiani a cambiare lavoro, in Europa, sono solo gli svedesi (appena il 4,4% lo ha fatto tra il 2002 e il 2003), i greci (5%) e i lussemburghesi (5,4%). I più ’mobili’, invece, sono i danesi (12,9%) e gli inglesi (12,6%). Seguono, nella classifica del tasso di cambiamenti di impiego, i lavoratori di Finlandia e Lettonia (entrambi 11,5%), Estonia (10,9%), Cipro (10,7%), Spagna (10,2%), Irlanda (9,3%, dato del 1997), Lituania (9%), Francia (8,6%, dato del 2000), Austria (8%). La propensione a cercare un altro datore di lavoro diminuisce ancora in Germania (7,3%), Belgio (7,1%), Ungheria (6,9%), Olanda (6,9%, dato del 1997), Portogallo (6,8%), Repubblica Ceca (6,6%), Malta (6%), Slovacchia (6,4%) e Slovenia (5,9%). Il ’picco’ più alto di mobilità occupazionale lo ha fatto registrare, però, la Spagna nel 1997, con ben il 18% di lavoratori che hanno cambiato impiego. Nello stesso anno, la Grecia ha segnato, invece, il record negativo, con il 3,8%.
Ma, mediamente, è nel 2000 che si registrano le percentuali più elevate (13,9% in Danimarca, 13,5% in Finlandia, 13,4% nel Regno Unito). In quasi tutti i Paesi, i valori sono poi diminuiti, ad eccezione di Repubblica Ceca e Ungheria dove, invece, il dato nel 2003 è aumentato.
FONTE LabItalia

smile99

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