Tramonto della ’carriera unica’ sempre più mobilità tra un’occupazione e un’altra (soprattutto al Nord), tendenza al doppio lavoro in diffusione soprattutto al Mezzogiorno e fra i lavoratori atipici, scarsa utilizzazione (a volte un vero ’spreco’) della propria formazione scolastica nella professione che si svolge, livelli salariali piuttosto modesti (per il 68,6% degli occupati mediamente fino a 1.300 euro) per un orario di lavoro che spesso (per il 60% dei lavoratori) va ben oltre le canoniche 36 ore (nel settore privato la percentuale sale al 73,4%). È questo il profilo medio del lavoratore italiano, che emerge dalle risposte che 6.015 tra dipendenti e atipici (a progetto, occasionali, in somministrazione) hanno fornito ai 69 quesiti riuniti dall’Ires Cgil in un questionario su ’L’Italia del lavoro oggi’. L’indagine è stata promossa in occasione delle celebrazioni del centenario della Cgil. I risultati della ricerca sono stati presentati a Roma, nella sede della Cgil a Corso d’Italia, alla presenza del ministro del Lavoro, Cesare Damiano, da Agostino Megale e Giovanna Altieri (rispettivamente presidente e direttore dell’Ires) e da Mimmo Carrieri, prorettore dell’Università di Teramo. All’iniziativa sono intervenuti anche Aris Accornero, professore emerito all’Università ’La Sapienzà di Roma, Andrea Pininfarina, vicepresidente della Confindustria, e Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil. Ha introdotto Giuseppe Casadio, presidente Associazione Centenario della Cgil. È soprattutto per le nuove generazioni di lavoratori che sembra ormai tramontata la possibilità di svolgere per tutta la vita lo stesso lavoro. Il 24% dei giovani occupati di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha cambiato da tre a cinque lavori prima di quello attuale e il 9,9% ha cambiato più di 5 lavori. Anche nella fascia 35-44 anni, il 22,4% ha dovuto sperimentare dai 3 ai 5 lavori e il 23,3% almeno due. Un dato che fa dire a Giovanna Altieri che, “più che di mobilità, possiamo parlare di instabilità occupazionale”. Ma dai dati elaborati dall’Ires emerge anche un quadro più complesso e dettagliato del fenomeno del precariato. A cambiare di più sede e tipo di lavoro sono gli operai e gli occupati nei settori del commercio, trasporti, spettacolo e turismo. Impiegati e dirigenti cambiano tutt’al più un lavoro, mentre per insegnati e tecnici la prima collocazione è quella definitiva. Ma quello che colpisce soprattutto i giovani è il dispendio del capitale umano. Il 43,8% degli intervistati dall’Ires non utilizza la propria formazione scolastica. Un problema particolarmente acuto nel settore privato, dove il 35% degli occupati dichiara di non utilizzare le proprie conoscenze nel lavoro (nella P.a. invece solo il 12,5%). Inoltre, l’80% dei lavoratori avverte l’esigenza di accrescere il proprio curriculum formativo. Nel sistema Italia, comunque, ben il 37% dei lavoratori svolge mansioni di basso profilo, che non richiedono particolari competenze professionali e solo una minoranza (il 22%) vede riconosciute le sue capacità. “Emerge - sottolinea con LABITALIA Accornero - una sempre maggiore divaricazione tra i contenuti del lavoro (migliorati anche grazie alle tecnologie e all’organizzazione) e la tutela dei lavoratori, peggiorata perché la flessibilità disancora un sempre crescente numero di persone dall’organizzazione canonica del lavoro. Quelle persone -spiega il sociologo- sono necessarie per un po’, come autonome e magari in certi periodi. C’è un certo ’smontaggio’ dell’insieme delle tutele perché c’è una diversificazione dei profili”. E, poi, certi provvedimenti hanno peggiorato la situazione. “In Italia con la legge Biagi - avverte il professore - l’aumento dei profili è stato folle e ogni nuovo profilo apre dei ’buchi’ nelle tutele e questo diffonde molta paura. Molta di più di quello che è successo. La legge Biagi - conclude Accornero - ha messo molta più paura del danno che ha fatto”. LABITALIA
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