Un accordo “importante, “che guarda al futuro”, “valido soprattutto per il dopo crisi economica”, ma che desta ancora molte preoccupazioni “perché non ha visto la firma del più grande sindacato italiano” e perché “ancora incompleto”. È l’accordo quadro sulle regole della contrattazione firmato il 22 gennaio 2009 da governo e parti sociali, con l’esclusione della sola Cgil. Sui contenuti dell’intesa e sui suoi sviluppi si sono confrontati a Roma giuristi ed economisti del lavoro, chiamati da Giampiero Proia, docente di diritto del Lavoro all’Università Roma Tre, e dalla Fondazione Adapt, presieduta dall’allievo di Marco Biagi, Michele Tiraboschi. Su una cosa sono tutti d’accordo: l’intesa di gennaio ha avuto il merito di avviare il superamento del protocollo del luglio ’93, vecchio di oltre 15 anni, e nato per proteggere l’entrata nell’area euro dell’Italia, calmierando la politica dei redditi, in un momento in cui l’inflazione galoppava a due cifre.
Ma già pochi anni dopo, come ha ricordato Carlo Dell’Aringa, docente di economia Politica all’Università Cattolica di Milano, “con la commissione avviata da Gino Giugni nel ’98, si è capito che quell’accordo non funzionava bene”. Anche se, ha detto ancora Dell’Aringa, “il protocollo del ’93 ha avuto il merito di compattare le parti sociali per affrontare le difficoltà economiche”. Le regole stabilite a luglio ’93 non hanno però tutelato le buste paga, se come ha osservato Sebastiano Fadda, docente di Economia Politica all’Università Roma Tre, “i salari italiani sono tra i più bassi dei Paesi Ocse: il salario medio annuale di una lavoratore single in Italia è 12.634 euro (dati Ocse 2007), contro i 23.944 della gran Bretagna, i 24.000 della Corea o anche contro i 18.000 dell’Austria e della Germania”.
Nell’accordo quadro di gennaio ci sono molte novità che però andranno ora declinate e approfondite. A partire dall’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato, costruito su base europea e depurato dall’inflazione del petrolio, che sostituisce l’inflazione programmata nel calcolo delle rivalutazioni salariali. “Si tratta di un indicatore che è sì strumento oggettivo - ha commentato Roberto Pessi, ordinario di diritto del lavoro alla Luiss Guido Carli di Roma - ma che di fatto sancisce che il contratto collettivo nazionale di lavoro è sottoposto alla scala mobile, perché non c’è l’humus della contrattazione”. Tra i motivi della mancata firma della Cgil, anche la clausola per cui la componente retributiva cui si applica l’adeguamento è il salario minimo tabellare. “Un coefficiente di rivalutazione , l’Ipca, più alto che nel passato - ha spiegato Fadda - che si applica, però, a una componente minore della retribuzione”.
“Un peggioramento del salario”, l’ha definito senza mezzi termini Dell’Aringa. Le nuove regole stabiliscono anche con certezza i livelli di contrattazione: al primo, quello nazionale, al secondo quella decentrata, legata alla produttività. “Occorre stabilire con certezza come misurare la produttività di un azienda - ha spiegato ancora Fadda - e soprattutto come incentivare un’azienda a raggiungere determinati livelli. Perché il rischio è - ha spiegato - che la competitività delle aziende si giochi solo sul basso costo del lavoro e che l’impresa, per non aumentare i salari, si senta esonerata dall’investire in tecnologia e ricerca”. “Nessuno ha la palla di vetro. E’ difficile fare delle prospettive”. E’ la risposta di Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena, su che cosa ne sarà dell’applicazione dell’accordo di gennaio.
“E’ chiaro - ha aggiunto Tiraboschi - però che il sistema delle relazioni industriali oggi non funziona e, quindi, anche non avendo fatto l’accordo, c’è una paralisi degli assetti contrattuali delle regole di rappresentanza. Quindi - ha concluso - meglio poco di niente, anche se non condiviso da tutti”.
“La mancata firma della Cgil non è un fatto positivo. In queste cose, il massimo della condivisione è sempre il risultato, per definizione, migliore. Ma non è neanche accettabile che le cose non cambino per il veto di qualcuno”. Così Giampiero Proia, docente di diritto del lavoro all’Università Roma Tre, ha parlato della riforma della contrattazione collettiva. “Purtroppo - ha avvertito Proia, che è stato anche presidente di Italia Lavoro - una cosa che il nostro sistema non si può permettere è l’immobilismo, perché l’immobilismo sta producendo guai seri. Se si pensa che negli ultimi 10 anni il vecchio sistema non ha consentito di difendere i salari, va da sé che qualcosa andava cambiato. LABITALIA
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